Ho comprato un paio di scarpe.
La scarpiera ha sei ripiani.
Nel primo, partendo dall’alto, ci sono le ciabatte per gli ospiti e le scarpe da bici, di quelle con l’aggancio in metallo che quando sali le scale fanno tip-tap-tip-tap.
Nel secondo le Gazelle rosse che non indosso più, “Non posso portarle in lavanderia, le ho pagate ottanta euro e me ne hanno chiesti quaranta per lavarle, guardo un video e le lavo da solo”, e infatti le ho rovinate tutte.
Le Tiger marroni le ho comprate usate, “Stringono un po’ ma è sopportabile”, sopportabile per quei trenta secondi di prova, mai indossate davvero.
Le Gazelle rosa sono un 42 e 2/3, il venditore era un bravo venditore, “Vedrai che si allargano, ti stanno benissimo, è un affare, ti faccio un prezzo stracciato visto che è l’ultimo numero che mi rimane”.
Due paia di scarpe antinfortunistiche.
Un paio di scarpe da trekking, un paio di scarponcini, le scarpe da corsa che la mamma mi ha comprato in prima superiore, “Fa lo stesso anche se costano cento euro, tanto il piede non ti cresce più, almeno le prendiamo buone che così ti durano”. Hanno nove anni e le uso ancora per andare a camminare.
Ho anche due paia di sneakers, quelle grigie hanno qualche migliaio di chilometri, il rivestimento interno si è consumato, assomiglia ad uno stampo da fusione che accoglie perfettamente il tendine d’Achille.
Sono belle, sono comode, finché non si sfasciano non mi va di cambiarle, cerco di allungarne la vita alternandole a quelle verdi.
Sono più di dieci paia.
Eppure.
Eppure sento un richiamo.
Ne voglio ancora.
Gli algoritmi continuano a propormene. Ne conosco il funzionamento. Da qualche parte sono raccolte tutte le tracce che ho lasciato in questi anni, la percentuale di annunci su cui ho cliccato, il tasso di conversione in acquisto, il numero di millisecondi passati su ogni singola immagine del carosello, sulla descrizione, sulle recensioni degli utenti, sui costi di spedizione.
È il consumismo, è il marketing, è la sensazione di aver bisogno di qualcosa di cui so di non aver bisogno.
Mà, a scuola oggi Marco aveva le scarpe che si illuminano. Hanno un sensore che quando cammini accende le luci di tutti i colori.
Edoardo ha quelle con la rotellina sotto, NON È VERO CHE SONO PERICOLOSE, quando è nei corridoi corre e poi porta tutto il peso indietro e devi vedere come va veloce, me le compri anche a me? Ti prometto che ci metto il tappo sotto, la ruota si può mettere e togliere, è fatto apposta, la metto solo quando ci sei te così non mi faccio male, e almeno ce le ho anch’io, gli altri hanno tutti le Nike e Nicolò ha detto che siamo poveri perché io uso ancora quelle con gli strappi che avevo anche al primo anno.
Il me bambino mi fa tenerezza. Lo ricordo fare tutti i calcoli a mente, con le rughe di espressione che inglobavano le lentiggini fitte fitte. Se papà guadagna mille euro, possiamo comprarle anche noi, le scarpe. Però la mamma ha detto che costano troppo. Quel bambino ha imparato presto cosa fossero i soldi, ma per gli ordini di grandezza c’è voluto un po’ di tempo in più. Come se mi avessero chiesto quanti litri di acqua ci fossero nell’oceano. Probabilmente avrei risposto “Più di centomila e meno di infinito”. Quanti sono due venti cento mille cinquantamila euro?
Nel tempio di Apollo c’è scritto “conosci te stesso”. E se il fine ultimo della psicoterapia è il benessere dell’individuo, l’autoconsapevolezza ne è condizione necessaria. È prendersi cura dell’io interiore, dell’io bambino, dell’io trascurato.
A Elle, che mi ha insegnato come si fa.