Cadavere squisito – Agustina Bazterrica

[3 min.] [579 parole]

“Se niente importa” è il libro che, due anni fa, mi ha fatto diventare vegetariano.

Nel frattempo ho letto diversi libri che chi non vuole avvicinarsi al veganismo difficilmente leggerebbe:

  • “Ho mangiato troppa carne” di Lorenzo Biagiarelli
  • “Il dilemma dell’onnivoro” di Michael Pollan
  • “In viaggio per Veganville” di Tobias Leenaert

La grandezza di Cadavere squisito, invece, è quella di poter arrivare anche a quei lettori. Da fuori sembra una semplice distopia, un mondo immaginario nato da un’ipotesi talmente improbabile da rimanere tale.

Ma non lo è, non finge nemmeno di esserlo, e sin dalle prime pagine il proselitismo si manifesta senza maschera.

Devo dare un contesto. Un virus trasmesso dagli animali costringe gli umani a sterminarli tutti. Pur di non rinunciare alla carne, si riadatta la linea di produzione per gestire il nuovo prodotto: la carne umana. Gli esseri umani sono divisi in due gruppi. Umani da allevamento (a cui ci si può riferire chiamandola solo “carne speciale”) e umani liberi. Quelli da allevamento si dividono ulteriormente: quelli geneticamente modificati e i FGPs, le bestie pure.

I dialoghi e i ragionamenti nascondono, dietro la finzione, la realtà del nostro mondo.

Riferendosi ad un umano da allevamento, un personaggio dice: “Come può paragonarsi a una bestia? Come può desiderare di essere come lui, un animale?”

Il messaggio è evidente: questo non succede solo nella distopia, in questa fiction, ma nella vita di tutti i giorni, dove le persone uccidono e mangiano alcuni animali ma ritengono bestiale il comportamento se ai danni di quelli domestici, ad esempio. Eppure sono la stessa cosa, animali, esseri viventi con lo stesso diritto di vivere. E spesso si giustifica il gesto con delle frasi fatte, “loro sono bestie e basta“, si usano parole come “lotto” e “capo”, perché le parole plasmano la realtà, e eliminando il concetto di identità lo si rende meno difficile da accettare. Non si discutono le differenze tra noi e loro, sono bestie e basta, si è sempre fatto così.

Marcos, il protagonista, è costretto a lavorare nel mercato della carne, perché viene adeguatamente pagato, perché non sa fare altro e perché in ballo c’è la salute di suo padre, a cui deve pagare la retta della casa di riposo.

Un passaggio mi ha ricordato “In quelle tenebre” di Gitta Sereny, dove spesso Franz Stangl, comandante dei campi di concentramento di Sobibor e Treblinka, si giustifica tirando in causa la sua famiglia e i suoi figli.

“Lui si domanda sempre come ci si senta a dedicare gran parte della propria giornata a riporre cuori umani dentro dei contenitori. A cosa penseranno quegli operai? Saranno consapevoli del fatto che quella cosa che tengono fra le mani fino a un attimo prima batteva? Importerà loro qualcosa? E poi riflette che anche lui dedica gran parte della propria vita a supervisionare un gruppo di persone che, su ordine suo, sgozzano, eviscerano e tagliano donne e uomini con la massima naturalezza. Ci si può abituare a tutto, tranne che alla morte di un figlio. Quanti capi devono ammazzare al mese perché possa pagare la retta della casa di riposo del padre?”

Il finale non voglio commentarlo, mi vergogno di aver empatizzato con lui, di averlo giustificato, di aver apprezzato alcuni suoi gesti, di aver trascurato quello che effettivamente lo rendeva un criminale quanto gli altri, se non peggio. E come un fesso provo piacere quando sento che la scrittrice è riuscita a prendermi in giro.

Se non capisci di cosa stia parlando, prova a leggerlo.